LUCA TAMBE

La Liturgia Dell'abbandono: Il Primo Maggio Come Simulacro di una Dignità Sottratta

La glorificazione simbolica della dignità lavorativa condannata all'oblio sistematico persiste come fenomeno sociale paradossale. Trecentosessantaquattro giorni all'anno, il sistema economico dominante orchestra uno smantellamento metodico e scientifico dei diritti conquistati attraverso decenni di lotte sindacali e sociali. Questo processo di erosione non avviene attraverso un'unica azione drastica, ma mediante un'infinità di microinterventi legislativi, amministrativi e culturali che, presi singolarmente, possono apparire innocui o addirittura necessari.

Le privatizzazioni selvagge vengono presentate come indispensabili modernizzazioni di settori pubblici inefficienti, mentre in realtà trasformano beni comuni in opportunità di profitto per pochi. I contratti precari non rappresentano più un'anomalia temporanea del mercato del lavoro, ma sono stati elevati a norma sociale, a modello di riferimento, a paradigma della cosiddetta flessibilità necessaria all'economia globale. La precarietà non è più condizione transitoria ma status permanente, non più eccezione ma regola.

La disoccupazione strutturale, conseguenza diretta di politiche neoliberiste che sacrificano l'occupazione sull'altare della competitività, viene sistematicamente rappresentata come fallimento personale, come incapacità del singolo di adattarsi alle "inevitabili" trasformazioni del mercato. Si attua così un perverso meccanismo di colpevolizzazione della vittima: non è il sistema a essere difettoso, ma l'individuo a essere inadeguato. La sofferenza sociale viene privatizzata, la responsabilità collettiva negata.

Gli algoritmi hanno sostituito i cronometri delle fabbriche fordiste, scandendo ritmi produttivi disumani che non tengono conto della fondamentale dimensione umana del lavoro. La tecnologia, anziché liberare l'uomo dalla fatica, come prometteva l'utopia modernista, diventa strumento di controllo capillare, di intensificazione dello sfruttamento, di frammentazione del processo produttivo che rende impossibile qualsiasi forma di solidarietà tra lavoratori.

Le tutele sindacali, costruite con sacrificio attraverso generazioni di lotte, vengono sistematicamente smantellate come "ostacoli alla crescita", come "privilegi insostenibili", come "rigidità anacronistiche". La narrazione dominante dipinge i diritti dei lavoratori come lussi che un'economia globalizzata e competitiva non può più permettersi. I sindacati vengono rappresentati come dinosauri ideologici, incapaci di comprendere le "necessità" del mercato globale.

In questo contesto di demolizione programmata dei diritti, si staglia, nella sua straordinaria ipocrisia, l'unico giorno di commemorazione rituale: il Primo Maggio. Una celebrazione vuota che santifica l'apparenza per meglio nascondere la sostanza. Un esercizio di simulazione che pretende di onorare il lavoro mentre si disonora quotidianamente il lavoratore. Una festa che celebra un'idea astratta e retorica di lavoro, mentre ignora sistematicamente le concrete e drammatiche condizioni lavorative.

Si innalzano palchi in piazze che il resto dell'anno rimangono deserte di proteste reali. Si pronunciano discorsi roboanti sulla "centralità del lavoro" da parte degli stessi attori politici e sociali che hanno contribuito alla sua marginalizzazione. Si organizzano concerti per distrarre dalla cruda realtà quotidiana, per sublimare nella catarsi musicale una rabbia che dovrebbe invece tradursi in azione politica.

Le manifestazioni del Primo Maggio fungono da valvola di sfogo controllato in un sistema di pressione crescente. Offrono l'illusione della partecipazione democratica, il simulacro dell'azione collettiva in un contesto che ha scientificamente eroso ogni potere contrattuale effettivo. Rappresentano la versione addomesticata e inoffensiva di una conflittualità sociale che, privata della sua carica sovversiva, diventa spettacolo, rituale, tradizione folkloristica.

L'ipocrisia suprema risiede proprio in questa teatralizzazione del conflitto sociale: quanto più enfatica è la celebrazione simbolica, tanto più devastante è la deregolamentazione sostanziale. La relazione tra apparenza e realtà diventa inversamente proporzionale: l'intensità della commemorazione cresce in misura direttamente proporzionale all'intensificarsi dell'attacco ai diritti che quella stessa commemorazione dovrebbe difendere.

La ritualità della festa neutralizza la sostanza della protesta, trasformando potenziali energie rivoluzionarie in innocue manifestazioni di nostalgia. Si concede un giorno di visibilità per garantire un'invisibilità permanente, si permette l'espressione del dissenso in forme controllate e limitate nel tempo per scongiurare la possibilità di un dissenso reale, diffuso, efficace.

Si autorizza la nostalgia per impedire il cambiamento, si consente di guardare al passato con rimpianto per distogliere lo sguardo dalla costruzione di un futuro alternativo. Si trasforma la tradizione in folklore, svuotandola della sua carica sovversiva originaria, riducendola a rito privo di sostanza, a cerimonia senza conseguenze.

Il Primo Maggio diventa così la più perfetta rappresentazione della contemporaneità: la celebrazione spettacolare di ciò che viene sistematicamente distrutto, l'esaltazione retorica di un valore che viene quotidianamente negato. Incarna il principio fondamentale del capitalismo avanzato: la colonizzazione dell'immaginario, la capacità di incorporare e neutralizzare la critica, di trasformare il potenziale sovversivo in merce, in spettacolo, in simulacro.

Questa ricorrenza rappresenta l'esempio più eclatante di quella che potremmo definire "appropriazione simbolica del dissenso": il sistema si appropria dei simboli della contestazione, li svuota del loro significato originario, li rende innocui e li restituisce sotto forma di commemorazione ufficiale, di celebrazione istituzionale. In tal modo, non solo neutralizza la carica sovversiva di quei simboli, ma la trasforma in elemento di legittimazione del sistema stesso.

La bandiera rossa, simbolo storico delle lotte operaie, diventa stemma decorativo, elemento scenografico, ornamento folcloristico. L'Internazionale, inno della solidarietà proletaria mondiale, si trasforma in reperto archeologico, in curiosità storica, in pezzo da concerto privo di conseguenze pratiche. Il pugno chiuso, gesto di sfida e di lotta, viene ridotto a pose fotografica, a citazione nostalgica, a riferimento culturale.

Più profondamente, il Primo Maggio rappresenta la perfetta sublimazione della contraddizione fondamentale delle democrazie neoliberiste: la convivenza di una retorica egualitaria, solidale, partecipativa con pratiche economiche e sociali profondamente disuguali, competitive, escludenti. È l'incarnazione della scissione tra la dimensione formale dei diritti e quella sostanziale della loro effettiva fruibilità.

Tale celebrazione incarna inoltre il paradosso temporale del capitalismo contemporaneo: l'appropriazione del passato per meglio cancellarlo, l'utilizzo della memoria storica come strumento per impedire che essa generi consapevolezza nel presente. La commemorazione diventa così non un ponte tra passato e futuro, ma un muro che impedisce di vedere le continuità storiche delle lotte sociali, che ostacola la percezione della persistenza delle ingiustizie strutturali.

In questa prospettiva, il Primo Maggio rivela la sua natura profondamente ambivalente: da un lato rappresenta un residuo di memoria collettiva, un frammento di coscienza di classe sopravvissuto alla generale frammentazione sociale del tardo capitalismo; dall'altro funziona come meccanismo di contenimento di quella stessa coscienza, come dispositivo di neutralizzazione del suo potenziale trasformativo.

La celebrazione annuale acquista così i contorni di una cerimonia funebre mascherata da festa: non celebra la vitalità di un movimento ancora attivo, ma commemora una stagione conclusa di protagonismo dei lavoratori. Non è affermazione di presenza, ma elaborazione di un'assenza. Non è manifestazione di forza, ma certificazione di una debolezza.

In tale contesto, il concerto-evento che tradizionalmente accompagna questa ricorrenza assume un significato particolarmente emblematico: trasforma l'energia potenzialmente politica della collettività riunita in energia puramente emotiva, converte la possibilità dell'azione comune in esperienza di passivo intrattenimento. La musica, che storicamente ha accompagnato e sostenuto le lotte sociali, diventa elemento di distrazione, di diversione, di depotenziamento.

Particolarmente significativo risulta il contrasto tra la retorica ufficiale, che continua a celebrare il "lavoro" come concetto astratto, e il silenzio assordante sulle concrete condizioni lavorative contemporanee: la precarietà strutturale, il lavoro gratuito mascherato da stage o tirocinio, lo sfruttamento sistematico dei lavoratori immigrati, le morti sul lavoro che continuano a rappresentare una strage silenziosa e in gran parte ignorata, la progressiva erosione dei diritti conquistati nel secondo dopoguerra.

La narrazione dominante del Primo Maggio evita accuratamente di nominare ciò che dovrebbe essere al centro dell'attenzione: lo sfruttamento. Questa parola, centrale nell'analisi marxista e nella tradizione del movimento operaio, viene sistematicamente espunta dal linguaggio ufficiale, sostituita da eufemismi come "criticità del mercato del lavoro", "necessità di maggiore produttività", "sfide della globalizzazione".

L'ipocrisia della celebrazione si manifesta anche nel contrasto stridente tra la retorica della "dignità del lavoro" e la realtà di un sistema economico che tratta il lavoro come pura merce, come costo da minimizzare, come variabile da flessibilizzare. Il lavoro viene retoricamente celebrato come fondamento della cittadinanza e della dignità personale, ma trattato concretamente come elemento residuale, subordinato alle esigenze del profitto e della competitività.

Questa scissione tra retorica e pratica riflette una più generale contraddizione delle società neoliberiste: la convivenza di un'ideologia meritocratica, che esalta l'impegno individuale e promette ricompense proporzionate al merito, con un sistema economico che produce disuguaglianze crescenti, che premia la rendita più del lavoro, che offre opportunità profondamente diverse in base alla condizione di partenza.

Nel contesto della pandemia globale che ha ulteriormente accentuato le disuguaglianze e aggravato le condizioni dei lavoratori più vulnerabili, il Primo Maggio ha rivelato con ancora maggiore evidenza la sua natura paradossale: mai come in questi anni è apparso stridente il contrasto tra la celebrazione simbolica e la drammatica realtà materiale dei lavoratori essenziali, sottopagati e sovraesposti al rischio, dei precari abbandonati a se stessi, degli autonomi privati di reddito e di tutele.

La crisi sanitaria, economica e sociale ha squarciato il velo di ipocrisia che avvolgeva il mondo del lavoro, rendendo visibili contraddizioni che il discorso dominante aveva a lungo occultato. Ha rivelato la natura essenziale di lavori socialmente svalutati e sottopagati, ha svelato la fragilità di un sistema produttivo basato sulla precarietà generalizzata, ha mostrato l'inadeguatezza di un welfare costruito su un modello di lavoro ormai largamente superato.

In questo scenario, il Primo Maggio rischia di trasformarsi da commemorazione rituale in cerimonia funebre di un mondo del lavoro devastato dalla crisi, o, al contrario, potrebbe rappresentare l'occasione per una riflessione radicale sulle trasformazioni necessarie per garantire un lavoro dignitoso a tutti in un contesto profondamente mutato. La scelta tra queste alternative non dipende dalle retoriche ufficiali, ma dalla capacità dei lavoratori di riappropriarsi di questa giornata, di sottrarla alla sua neutralizzazione spettacolare, di riempirla nuovamente di contenuti antagonisti.

La sfida consiste nel trasformare quella che è diventata una commemorazione nostalgica in un momento di elaborazione collettiva di nuove forme di lotta, adeguate al capitalismo cognitivo contemporaneo. Si tratta di recuperare la dimensione conflittuale della festa, la sua originaria natura sovversiva, la sua capacità di prefigurare, nel momento stesso della celebrazione, un ordine sociale alternativo.

Il Primo Maggio potrebbe così diventare non più celebrazione di un passato idealizzato, ma laboratorio di un futuro possibile; non più rituale di una classe in declino, ma cantiere di nuove forme di solidarietà; non più commemorazione di lotte concluse, ma officina di conflitti nascenti. Potrebbe trasformarsi da momento di pausa simbolica dello sfruttamento a spazio-tempo di elaborazione di strategie per contrastarlo efficacemente.

Questa trasformazione richiederebbe un recupero della memoria storica non come esercizio nostalgico, ma come strumento di analisi critica del presente; un ritorno all'internazionalismo non come slogan retorico, ma come pratica concreta di fronte a un capitale globale; una riaffermazione dell'autonomia non come isolamento corporativo, ma come capacità di autodeterminazione collettiva.

Significa rifiutare la riduzione del Primo Maggio a evento spettacolare per riaffermarne la natura di momento politico; respingere la sua istituzionalizzazione neutralizzante per rivendicarne la carica sovversiva; sottrarsi alla sua mercificazione per ricostruirne la dimensione comunitaria.

In questo senso, il Primo Maggio rappresenta una sineddoche del conflitto più generale tra lavoro e capitale: la sua sorte riflette l'esito provvisorio di questo conflitto, le forme che assume rispecchiano i rapporti di forza esistenti, le retoriche che lo accompagnano rivelano le contraddizioni del sistema economico dominante.

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