Un bambino che tocca l’erba, ascolta il fruscio degli alberi, osserva le formiche o rincorre il vento sta costruendo una mappa interiore del mondo che nessuno schermo potrà mai replicare. L’infanzia è il tempo dell’incanto sensoriale, dello stupore quotidiano, del corpo che si muove nello spazio reale, dell’odore delle stagioni, del tatto sporco di terra, della voce che chiama e risponde senza interfacce. Esporre un bambino alla tecnologia prima che abbia potuto scoprire queste coordinate primitive della realtà significa offrirgli un mondo ridotto, filtrato, sterilizzato. Il digitale non è neutro: seduce con la sua immediatezza, ma ruba il tempo lento dell’attesa, del silenzio, della scoperta accidentale. Non è questione di demonizzare lo schermo, ma di stabilire un ordine. Prima si incontra il mondo, poi si interpreta. Prima si annusa la vita, poi si apprendono i linguaggi per raccontarla. Se si inverte questa sequenza, non si dà alla tecnologia uno spazio, ma un potere. E il rischio non è solo che i bambini perdano il contatto con la realtà, ma che la confondano con la sua rappresentazione. Perché ciò che si sperimenta per primi lascia una traccia profonda. E se il primo mondo che conoscono è un touch screen, quel mondo finiranno per considerarlo autentico.