June 23

Doppia Morale e Bombe Selettive: Il Teatro Ipocrita della Geopolitica

L'immaginazione è uno strumento potente, soprattutto quando serve a smascherare le ipocrisie. Pensateci un attimo: se un attacco armato contro una nazione mediorientale fosse stato condotto da un Paese ritenuto ostile all’Occidente, l’indignazione mediatica sarebbe già esplosa a tutte le latitudini. I talk show brulicherebbero di analisti pronti a raccontarci la solita storia dell’aggressore contro l’aggredito, la libertà contro la tirannia, l’Occidente civile contro il barbaro invasore. Le piazze digitali sarebbero colme di profili illuminati dalla bandiera della vittima, i titoli a caratteri cubitali, le risoluzioni d’urgenza votate all’unanimità.

Ma se il bombardamento viene da chi viene considerato alleato, e colpisce chi da anni è additato come nemico o “problema”, allora tutto cambia. Il linguaggio si fa vago, il silenzio più lungo. Nessuna narrazione binaria, nessun bianco e nero: solo una nebbia fitta di giustificazioni, analisi geopolitiche a senso unico, e una puntuale rimozione emotiva che sterilizza ogni empatia.

In un mondo in cui la moralità si applica a geometria variabile, i fatti non contano tanto quanto la provenienza dei missili. Non è l’azione in sé a determinare il giudizio, ma chi la compie. La stessa dinamica – un attacco militare a uno Stato sovrano – può essere gridata come crimine contro l’umanità o sussurrata come legittima difesa, a seconda di chi preme il pulsante.

Eppure, sotto le bombe non ci sono bandiere ideologiche. Ci sono persone. Uomini, donne, bambini. La loro sofferenza dovrebbe avere lo stesso peso, che arrivi da Est o da Ovest, da Nord o da Sud. E invece no. Perché la narrazione ufficiale si costruisce a tavolino, sulla base di alleanze, interessi economici, convenienze strategiche.

Così, mentre un intero popolo può essere travolto dalla violenza, la copertura mediatica si limita a brevi trafiletti, o peggio ancora a giustificazioni precotte che presentano l’aggressione come inevitabile, necessaria, perfino chirurgica. I commentatori cambiano tono, gli opinionisti filtrano l’indignazione con il colino del consenso occidentale, e il dramma umano scompare sotto le pieghe del racconto dominante.

E chi osa far notare questa sproporzione viene spesso bollato come fazioso, filodittatoriale, ingenuo. Ma chiedersi perché certe vite valgano più di altre agli occhi dell’opinione pubblica non è provocazione. È una necessità. Perché il modo in cui reagiamo alla violenza rivela molto più delle nostre dichiarazioni. Rivela le nostre priorità, la nostra selettività morale, il nostro grado di condizionamento.

Siamo così abituati a pensare per schieramenti che abbiamo smesso di guardare i fatti per ciò che sono. E questo è forse il danno peggiore. Perché in mezzo a questo gioco di specchi ideologici, chi soffre davvero non trova più spazio. Diventa cifra in un rapporto, danno collaterale, notizia accessoria.

La domanda vera, allora, non è solo “cosa sarebbe successo se fossero stati altri a bombardare”. È: perché siamo disposti a indignarci solo a comando? Perché non pretendiamo coerenza da chi decide cosa possiamo sapere, sentire, capire? Perché ci lasciamo trattare come sudditi informativi, a cui si consegna una verità filtrata secondo gli interessi di chi narra?

Una bomba è una bomba, da qualunque parte arrivi. Un attacco è un attacco, anche se lo compie un alleato. E ogni volta che accettiamo doppi standard, ogni volta che restiamo in silenzio perché “non è la nostra guerra”, stiamo dicendo al mondo che ci sono vittime di serie A e di serie B. Che ci sono dolori trascurabili e dolori utili.

E questo, prima ancora della violenza armata, è il vero disastro morale.