Giudizi Frettolosi e Paure Nascoste nel Teatro Silenzioso del Lavoro
Il posto di lavoro, in fondo, è come un’arena romana mascherata da open space: ci si sorride, si scambiano battute, si commenta il meteo, ma sotto la superficie c’è quel brivido sottile e costante della competizione. Non quella dichiarata, aperta, pulita. No, quella viscida, fatta di silenzi strategici, occhiate storte e domande poste apposta per farti inciampare. Se sei nuovo, quel brivido diventa coltellata: ti osservano come un animale esotico, incuriositi ma diffidenti, e il primo errore diventa la prova schiacciante che sì, sei un impostore.
In ogni ambiente lavorativo esiste una strana liturgia non scritta: il rito del “ti metto alla prova”. Alcuni lo fanno per abitudine, altri per insicurezza, altri ancora per puro sadismo travestito da professionalità. Ti testano. Ti “assaggiano”, come si fa con un piatto che non si conosce. Ti valutano non per quello che sei, ma per quanto somigli a ciò che loro pensano dovrebbe essere un professionista. E la beffa è che se sei agli inizi, c’è un’aspettativa assurda: che tu sappia già tutto. Che tu abbia esperienza, visione, automatismi, come se fossi stato clonato direttamente da un manuale tecnico. Il fatto che sei lì per imparare? Roba secondaria.
Ma è anche vero che, da parte nostra, serve un bagno d’umiltà. È inutile fingere di sapere se non si sa. L’orgoglio in certi casi è come un giubbotto di salvataggio bucato: ti fa sentire protetto finché non affondi. È molto più sano – e infinitamente più potente – ammettere la propria inesperienza, non per sminuirsi, ma per creare le condizioni di un apprendimento reale. Perché il lavoro vero, quello che resta, si costruisce su basi solide, non su facciate. E l’unico modo per restare a lungo in un contesto professionale è avere il coraggio di dirsi: “Non lo so. Ma lo imparerò”.
Il problema è che la trasparenza, in certi contesti, viene scambiata per debolezza. E qui entra in gioco il secondo strato della questione: la paura altrui. Perché chi ti giudica non lo fa solo per mancanza di empatia, ma anche perché sotto sotto teme che un giorno potresti diventare meglio di lui. È quella paura viscerale, mai confessata, che trasforma un semplice errore da principiante in un pretesto per sminuirti in modo definitivo. È come se ti volessero congelare in quell’identità del “nuovo che non sa”, prima che diventi qualcosa che li mette a disagio: un collega stimato, un riferimento, un’alternativa.
La paura di essere superati è una delle molle più potenti e tossiche dell’ambiente di lavoro. Fa più danni dell’incompetenza. Spinge le persone a giudicare in fretta, a isolare chi è brillante, a sottolineare ogni inciampo altrui come se fosse una prova di inferiorità genetica. Ma in realtà stanno combattendo contro un fantasma: l’idea che la loro sicurezza possa vacillare se qualcuno lì accanto comincia a brillare troppo. E se, per caso, hai anche più qualifiche di loro, la cosa diventa insopportabile. Perché lì non è solo l’ansia del confronto, ma l’angoscia del confronto perso in partenza.
Chi ti giudica in fretta, chi ti cataloga alla prima difficoltà, chi si sente in dovere di sottolineare ciò che non sai, spesso non sta parlando di te. Sta parlando di sé stesso. Della sua paura di non essere più indispensabile, del suo terrore che l’ordine gerarchico non sia più così stabile. Ti condanna per ignoranza ma lo fa per paura. E quel giudizio, affrettato, tagliente, serve solo a calmare una coscienza in subbuglio. Ma non funziona. Perché chi ha davvero paura, in pace non ci va mai.
Il dramma è che tutto questo si consuma nel silenzio. Nessuno lo dice, nessuno lo ammette. Tutto avviene dietro i sorrisi e le pacche sulle spalle. E il nuovo arrivato resta lì, con la sensazione di dover dimostrare qualcosa in un campo minato di aspettative irrazionali e giudizi sommari. La verità è che la professionalità non è una corsa a chi sbaglia meno. È un percorso. Un processo. E chi lo comprende davvero, aiuta chi sta iniziando, non lo ostacola. Lo sostiene, non lo misura con un metro sbilenco.
Ci vorrebbe più onestà emotiva nei luoghi di lavoro. Più capacità di dire: “Ehi, anche io ho iniziato da zero”. Ma questo richiede un grado di sicurezza che pochi hanno. E allora preferiscono indossare la maschera del veterano infallibile, e da quella posizione sparare sentenze. Ma la maschera prima o poi cade, e si vede per quello che è: un paravento costruito per paura, non per forza.
Alla fine, il consiglio per chi entra in un nuovo ambiente è semplice, ma scomodo: sii umile, ma non cieco. Ammetti ciò che non sai, ma non accettare di essere definito solo da quello. Impara, ma scegli con cura da chi. Perché spesso quelli che parlano più forte sono quelli che hanno meno da insegnare. E se il giudizio arriva troppo in fretta, sappi che non è contro di te. È contro l’idea di te che li spaventa. E questo, alla lunga, è già una piccola vittoria.