Quando l’Osteopatia Insegna a Guardarsi Dentro: Diario di un Sogno Tradito
Il Centro di Formazione Integrata di cui facevo parte è stato per me una scuola rivoluzionaria sotto molti aspetti, e non lo dico con leggerezza. È facile etichettare le esperienze formative come “intense”, “profonde”, “cambiavita”, ma raramente queste parole coincidono davvero con la complessità di ciò che si è vissuto. In questo caso, invece, posso affermare che quegli anni hanno rappresentato una parabola completa di slanci, sogni, fratture, disillusioni e – per quanto dolorose – anche verità. Una parabola fatta di entusiasmo incandescente e cadute verticali.
Cinque anni trascorsi tra slanci di idealismo e frustrazioni silenziose, tra momenti di autentico stupore e altri in cui si faceva fatica perfino a respirare. Ricordo bene l’atmosfera iniziale: si percepiva un fermento nuovo, l’idea che lì dentro si stesse costruendo qualcosa di grande, di diverso, di pionieristico. Lì dove l’osteopatia non doveva essere solo una tecnica, ma una visione. Una filosofia. Un modo di essere nel mondo, prima ancora che un modo di operare sul corpo. Eppure, anche gli ideali più alti possono essere rovinati da ciò che si annida sotto la superficie: le invidie, le rivalità sottili, le vanità che crescono dove manca l’umiltà.
Io non dimentico. Non dimentico gli istanti in cui ho sentito il mio spirito vibrare per un’intuizione ricevuta durante una lezione. Ma non dimentico nemmeno lo sguardo stanco dei compagni che si spegneva piano, le discussioni mai chiarite, le parole taglienti dette a denti stretti nei corridoi. E non dimentico la sensazione che, mentre alcuni di noi cercavano di imparare con sincerità, altri fossero lì più per marcare un territorio che per esplorarlo.
In questo percorso non è mancata la guida. C’era un riferimento chiaro, una figura che si presentava come detentrice del sapere e della centratura tecnica. Ma ciò che ho imparato con il tempo – e con una certa amarezza – è che la competenza manuale, per quanto raffinata, non basta se non è accompagnata da una reale coerenza interiore. Non basta essere tecnicamente impeccabili se poi manca la connessione tra pensiero, cuore e azione. La mancanza di coerenza, in qualunque relazione educativa, lascia cicatrici profonde.
Perché l’osteopatia di cui si parlava in quella scuola non era una semplice collezione di tecniche manipolative: era una chiamata alla trasformazione, alla responsabilità personale, all’apertura mentale e alla rinuncia dell’ego. Ma come può trasmettere questi valori chi non li incarna? Come si può pretendere di far comprendere la delicatezza di un ascolto palpatorio profondo, quando l’ambiente stesso è pervaso da tensione, da rivalità, da egocentrismo mascherato da carisma?
Le prime donne abbondavano, e non parlo di genere ma di atteggiamento. Ognuno sembrava più interessato a ritagliarsi un ruolo, un posto nella gerarchia invisibile ma rigidissima del gruppo, piuttosto che a costruire una comunità. Bastava un’occhiata per sentire il peso dei non detti, delle antipatie sotterranee, delle dinamiche non risolte. E quando queste dinamiche diventano la norma, non importa quanto profondo sia il contenuto didattico: il terreno non è fertile.
C’erano, certo, anche momenti di bellezza autentica. Discussioni sincere con pochi colleghi, notti passate a studiare insieme con lo sguardo acceso, esercitazioni dove il contatto diventava veicolo di comprensione e umanità. Ma questi momenti erano spesso minacciati da un sistema che non li proteggeva. Non c’era spazio per l’ascolto vero, per la vulnerabilità, per l’errore che aiuta a crescere. C’era piuttosto una corsa alla performance, una necessità di essere sempre all’altezza, anche quando dentro ci si sentiva crollare.
Quando ho sentito alcune novità raccontate da chi ancora frequenta quel mondo, non mi sono stupito. Anzi, tutto è diventato più chiaro. Alcune fratture non si vedono subito, ma col tempo mostrano tutta la loro profondità. E se una struttura educativa, per quanto innovativa, non si basa su una reale coerenza tra ciò che dice e ciò che fa, prima o poi crolla. Non servono promesse altisonanti né tecniche sofisticate, se mancano le fondamenta etiche.
La verità è che certe esperienze ti trasformano anche attraverso la delusione. Quello che ho vissuto è stato allo stesso tempo straordinario e frustrante. Un’esperienza che mi ha fatto crescere, ma che mi ha anche lasciato addosso il peso di un’occasione sprecata. Perché bastava poco. Bastavano alcune scelte diverse, più fermezza, più sincerità, più ascolto. Bastava meno ego e più comunità. E oggi, invece, quel sogno si è sgretolato tra le dita.
Non porto rancore. Ma porto consapevolezza. So che quella scuola avrebbe potuto cambiare le regole del gioco. Avrebbe potuto rivoluzionare il modo in cui si insegna e si vive l’osteopatia. Ma per farlo, sarebbe servita un’altra qualità: quella di chi sa mettersi in discussione, di chi sa accogliere il confronto, di chi è pronto a lasciar andare il bisogno di controllo. L’osteopatia che si cercava di insegnare richiede anime leggere, menti aperte, cuori saldi.
E non tutti ce la fanno. Né a insegnarla, né ad apprenderla. Perché non si tratta solo di imparare a sentire le fasce o il ritmo cranico. Si tratta di imparare a sentire sé stessi, e gli altri, con profondità e rispetto. Si tratta di imparare a lavorare senza ferire, a correggere senza umiliare, a guidare senza dominare.
Per questo oggi, quando ripenso a quei cinque anni, non riesco a definirli con una sola parola. Sono stati un insieme di tutto: entusiasmo, frustrazione, ispirazione, disillusione. Ma soprattutto, sono stati un potente specchio. Uno specchio che ha riflesso il meglio e il peggio, dentro e fuori di me.
Il sogno si è infranto? Forse. Ma da quelle macerie può nascere qualcos’altro. Qualcosa di più vero, di più consapevole, di più radicato. Perché ora so cosa non voglio. So che tipo di ambiente cerco. So quanto sia fragile un progetto senza coerenza. E so che l’osteopatia non è per tutti. Ma lo è per chi è disposto ad affrontare sé stesso, prima ancora di affrontare un paziente.
E questa, forse, è la lezione più importante che ho portato via con me.